“A Parigi non c’è un inverno vero e proprio, cade la pioggia, scroscia, picchia, bisbiglia sui vetri e sui tetti un giorno, due, tre. In gennaio all’improvviso arriva, verso la fine del mese, il giorno in cui tutto brilla, il tepore si diffonde, il cielo è azzurro e ai tavolini del caffè la gente sta seduta senza cappotto, e le donne vestite leggere trasfigurano la città. È come una promessa. La prima allusione al fatto che presto tutto sarà di nuovo allegro, bello e ricomincerà a scintillare”.
(Nina Berberova)
Caffè all’aperto, la mia idea di felicità.
Ho sfilato un altro libro dai miei scaffali (e dire che sarebbe il momento giusto per mettere a posto e spolverare, e invece no, la pandemia non ha questo buon effetto su di me). Stavolta il libro è di una scrittrice che ho molto amato in passato, Nina Berberova, e di cui ho molto regalato un piccolo gioiello, “Il giunco mormorante”. Il brano di oggi invece è tratto dalle sue memorie, “Il corsivo è mio” (anche questo Adelphi, traduzione di Patrizia Deotto). E che vita, Nina. Nata nel 1901 a San Pietroburgo, lascia la Russia dopo la Rivoluzione, nel 1922: prima “emigrée” a Parigi, poi nel 1950 va negli Stati Uniti, dove insegnerà a Princeton. Di quegli anni, gli anni Venti e Trenta a Parigi, dice: “”Ho sempre fame. Indosso sempre abiti e scarpe altrui, non ho né profumi, né seta, né pellicce; eppure non li desidero tanto come desidero le ghiottonerie esposte nella vetrina del salumiere”. E ancora: “Mi trovo al centro di mille possibilità, di mille responsabilità e di mille incertezze. E se devo essere sincera fino in fondo: gli orrori e le sciagure del mio secolo mi hanno aiutata: la rivoluzione mi ha liberata, l’esilio mi ha temprata, la guerra mi ha spinto in un’altra dimensione”.
Mi piacciono queste donne che hanno attraversato i secoli, gli oceani, l’esilio e lo sperdimento, e poi sanno raccontare quel momento di pura felicità in cui arriva la primavera, ti metti un abito leggero, ti siedi al caffè. Succederà presto anche a noi, una ritrovata libertà