“Perché viaggiare, insieme a leggere e ascoltare, è sempre la via più utile e più breve per arrivare a se stessi”.
(Jan Brokken)
Dietro l’angolo, il mondo.
Da dove viene questo Buongiorno? Da una mia intervista a Jan Brokken, uscita su D di Repubblica. E dalla fascinazione per i suoi libri, cominciata con il primo che ho letto, “Anime baltiche”, mentre ero in viaggio per Tallinn, anni fa.

Viaggiare, per raccontare storie. Viaggiare, seguendo il filo delle storie. È Jan Brokken, che nei suoi libri, in Italia tutti pubblicati da Iperborea (l’ultimo è “L’anima delle città”) traccia una mappa di destini e segreti, una mappa che va da Tallinn a Sulawesi, da San Pietroburgo a Cagliari. Ne parliamo nella sua casa di Amsterdam: Brokken è cittadino e “traduttore” del mondo, ma la scrivania dove lavora, tutti i suoi notes di viaggio sono qui, all’ultimo piano bianco e luminoso di una “warehouse” del Seicento ristrutturata. E c’è una sua frase che è come un viatico, anche per noi; viene da “Anime baltiche”, il viaggio tra Lettonia, Lituania ed Estonia che è il suo bestseller: “Perché viaggiare, insieme a leggere e ascoltare, è sempre la via più utile e più breve per arrivare a se stessi”. Quindi, viaggiare per trovarsi?

E viaggiare per allargare il mondo. Io sono nato a Leida; mio nonno mi portava spesso in quello che era il vecchio museo di antropologia, e mi diceva: “Vedi, il mondo è più grande di quello che pensi”.
-Lei ha il viaggio nel sangue: è vero che è stato concepito sulla nave che riportava i suoi genitori in Olanda dall’Indonesia, nel 1948?
Questo a dir la verità non l’ho mai chiesto ai miei (ride). Diciamo che fa parte della mia personale mitologia. Ma il loro non è stato un viaggio facile, anzi. Uscivano da anni di prigionia in un campo di concentramento giapponese in Indonesia. Furono incarcerati nel 1942, e separati. Mio padre era in un campo maschile; mia madre in un campo femminile vicino a Macassar, con i miei due fratelli. Io sono l’unico che è nato in Olanda. E negli ultimi anni sono andato sulle loro tracce.
-Quindi nel prossimo romanzo racconta l’Indonesia degli anni coloniali, un viaggio anche nel tempo?
Racconto soprattutto mia madre, come non l’ho mai conosciuta: una ragazza curiosa e intelligente, che a 23 anni partì per l’Indonesia insieme a mio padre, missionario e antropologo. L’ho scoperta, Olga, attraverso le lettere che scrisse alla sorella, e che mi sono state consegnate dopo la sua morte. Il libro, che uscirà per Iperborea l’anno prossimo, è dedicato a lei. Ma anche a Macassar, e alle terre straordinarie di Tana Toraja a Sulawesi, dove ha vissuto.
-I suoi libri sono passeggiate nel mondo. Che cosa porta sempre con sé, quando parte?
Non viaggio mai senza almeno un notes: i più belli li compro a Venezia. E le mie Montblanc. Soprattutto la mia stilografica, che mi permette di scrivere per ben 10 chilometri! Perché, come dice un proverbio africano, l’occhio del viaggiatore è grande, ma non vede niente. Guardare non è abbastanza: devi “tradurre” quello che vedi. Io lo faccio scrivendo. E i miei notes mi accompagnano sempre, anche se magari uso solo il 10% di quello che annoto.
-È curioso che lei, grande viaggiatore, nell’ultimo libro, “L’anima delle città”, racconti la storia di un uomo che praticamente non si mosse mai di casa: Giorgio Morandi, e la sua Bologna. Il suo esatto opposto.
È vero. Io, l’eterno irrequieto, racconto un pittore che non si mosse mai di casa, che non si sposò mai. Viveva con le sorelle, dipingeva ombre su vasi, ciotole, caraffe, senza uscire dal suo studio. Ma, come ho scritto, lo capisco: soprattutto quando sono lì e mangio pasta ai fiori di zucca, bevo Sangiovese… Allora penso che mi piacerebbe rimanere a Bologna per sempre, e pranzare ogni giorno alla Drogheria della Rosa, a pochi passi da quella che era la sua casa. Lo capisco, Morandi; ma non avrei mai potuto essere come lui.
-Nelle flâneries metropolitane di “L’anima delle città” lei è anche a Parigi con Satie, a Düsseldorf con Beuys… Ma poi, a sorpresa, c’è Cagliari. Con una donna straordinaria: Eva Mameli Calvino, la mamma di Italo, la prima donna a dirigere un giardino botanico in Italia. È andato a Cagliari per lei?
No, ma ero a Cagliari, e mi incuriosiscono sempre gli orti botanici, ovunque nel mondo, forse perché a Leida mi ci portava sempre mio nonno. Per questo ho scoperto la storia di Eva. Ed è così che nascono i miei libri: parto, viaggio, per strada raccolgo storie. Non il contrario. Seguo anche le confidenze dei lettori, o di incontri casuali. Lei, ad esempio, dove mi porterebbe?
-A Trieste, dove sono nata.
Trieste è magnifica: vede, potrebbe essere proprio lei a darmi una chiave di lettura. Perché mi piacciono le città di luce e d’acqua: Amsterdam, dove vivo. Venezia. E San Pietroburgo.
-Lei andò per la prima volta a San Pietroburgo quando era ancora Leningrado, nel 1975. Seguì il filo di Anna Achmatova, e poi Dostoevskji, Gogol’, gli espatriati Brodskij e Nabokov, Esenin… Una folla di volti e destini intrecciati in “Bagliori a San Pietroburgo”. È una città ancora nel suo cuore?
L’ho scritto, ed è ancora vivido e dolorosamente vero: se San Pietroburgo non fosse esistita, avrei inventato io questa città che sonnecchia lungo il fiume, come uno stato d’animo che mi si addice per sempre.
-Dostoevskji ritorna spesso nelle sue pagine, anche in un altro romanzo, “Il giardino dei cosacchi”. Come mai?
Per il suo insegnamento: la bellezza salverà il mondo. È quello che scoprì negli anni in Siberia. Ma è anche quello che salvò mio padre nel campo di concentramento in Indonesia. Al suo grande amico, un pittore che viveva a Bali e a cui fu permesso di dipingere anche durante la prigionia, ho dedicato un nuovo libro che esce adesso in Olanda. L’arte, la letteratura, ci può cambiare, e salvare. Ci credo, raccontando il mondo.