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Luce, poesia e cemento

Forse sono solo dei buchi nel cemento. Però, che bellezza.  Finalmente a Parigi sono entrata nello spazio sospeso della Bourse de Commerce, e mi è tornata in mente l’intervista che avevo fatto a Tadao Ando, per il Sole24Ore, mentre stava ancora lavorando al progetto. “Ho disegnato un cerchio dentro un cerchio”, mi ha detto. E poi abbiamo parlato di luce, di cemento, del potere del bianco. E dell’inaspettato che – a volte – accade.

Cemento e leggerezza, armonia ed eleganza, e luce, soprattutto luce. Tadao Ando, nato a Osaka nel 1941, Premio Pritzker (che è un po’ il Nobel dell’architettura) nel 1995, è questo. Come nella Bourse de Commerce, il museo commissionato da François Pinault, nell’ex Borsa di commercio di Parigi. «La nostra priorità è portare la storia di Parigi alle nuove generazioni. Come a Punta della Dogana a Venezia, l’obiettivo è di restaurare un edificio antico (la Borsa è stata fondata già nel ’700, la cupola è dell’800), ma soprattutto di rivitalizzarlo, trasformandolo in un museo di arte contemporanea. A Punta della Dogana l’abbiamo fatto inserendo un cubo di cemento al centro dell’edificio dell’antica dogana veneziana. A Parigi introduciamo nello spazio un grande cilindro. Inserendo un elemento completamente nuovo in un sito di storia e tradizione, è possibile, credo, creare un luogo che permetta un dialogo tra passato e contemporaneo». Luce e cemento, quindi. Non a caso uno dei suoi progetti più famosi è la Chiesa della Luce a Ibaraki, in Giappone, con una croce stilizzata e incisa nel cemento, che fa passare spiritualità e raggi. «Ricordo ancora la prima volta che ho messo piede nel Pantheon, a Roma. La luce che arriva da un’apertura di 8,3 metri nella cupola, che ha 43 metri di diametro. La luce che abbraccia e include la vita. Un momento che mi ha ispirato e segnato per sempre». Una cupola e una circolarità che è, casualmente, anche quella della Bourse de Commerce. Forme primarie, semplici.

E poi, Tadao Ando e la moda. Armani, innanzitutto, come nel teatro di Armani a Milano. Ma la moda è anche quella che Ando sceglie per sè. Possiamo chiederle il suo colore preferito? Blu, black? Ci spiazza: bianco. «A vent’anni ho incontrato il Gruppo Gutai. Un gruppo di artisti davvero radicali; iniziavano sempre con una tela bianca. Ma cos’è possibile disegnare in un mondo assolutamente bianco?». Il Gruppo Gutai, negli anni Cinquanta, ha cercato di dare una risposta. «È questa whiteness, questa “candidezza” che mi interessa, anche perché in architettura non esiste. Quando si costruisce è impossibile in realtà cominciare da zero, da una tela bianca. Qualsiasi cantiere si inserisce in un contesto culturale preciso, con un’eredità di storia. Quello che dobbiamo fare è capire il potere, la potenzialità del sito, e costruire un nuovo mondo partendo da lì. Quindi possiamo dire che bianco è il colore che desidero».

Lei vede la moda, soprattutto quella maschile, quasi come un’architettura? «Le rispondo con la storia di un’amicizia, quella tra me e lo stilista Issey Miyake. Siamo stati amici da più di cinquant’anni (hanno realizzato insieme il nuovo centro di mostre e design 21_21 a Tokyo), e mi ha sempre colpito molto la sua capacità di creare senza compromessi, con un vivido senso di lucidità e prontezza. Issey riesce a creare sempre qualcosa di nuovo, partendo da ciò che è basic. Io cerco di seguire il suo esempio, cerco di pensare all’architettura sempre da nuove prospettive».

E quindi l’eleganza per lei è basic? «Questa è l’eleganza: saper esprimere se stessi, senza dipendere o essere condizionati dagli altri». Ma lei ha qualcosa, nel suo armadio, che non butterà mai via? Ci risponde non con una camicia o una giacca, ma con un pensiero sull’inaspettato che accade. «Ho visto molte cose nella mia vita. Ero a Parigi nel Maggio ’68, barricate e rivoluzione. Poi il primo progetto su cui abbiamo lavorato insieme con Pinault, quello per un museo di arte contemporanea sull’Île Seguin, progetto mai realizzato. Ma questo ha portato prima a Punta della Dogana, e ora alla Bourse de Commerce. Un sogno che è, dunque, ritornato a Parigi. Perché se lavori, immagini, crei senza mai perderti d’animo, l’inaspettato accade. Questo è quello che ho imparato nella vita, e questa è la cosa più preziosa del mio armadio dei pensieri». Ma il suo luogo del cuore nel mondo, qual è? «Osaka, dove sono nato. E dove continuo a vivere e lavorare. Lì ho capito che volevo diventare un architetto: lo devo anche a un maestro, e ad un falegname. Il maestro era quello di matematica: entusiasta, appassionato, mi ha fatto scoprire il mondo dei numeri e della geometria. Il falegname era quello che lavorò alla ristrutturazione della nostra vecchia casa di famiglia. Ricordo come rimasi colpito dai raggi di luce che entravano in camere sempre in ombra, illuminandole, mentre il tetto veniva rifatto. Ma non fu solo il gioco di luce e ombre ad affascinarmi; era il falegname che lavorava sul tetto. Guardandolo, pensai per la prima volta che poter creare, saper creare, era un lavoro meraviglioso». Lei è prodigiosamente autodidatta. «E negli anni Sessanta, una sfida personale: ho viaggiato da solo dal Giappone all’Europa, passando per la Siberia; e poi ancora avanti, fino a Cape Town, tornando per l’India e la Thailandia. Per vedere tutti gli edifici di cui avevo letto. È stato questo che mi ha formato, insieme ai viaggi nei siti storici del Giappone, Nara e Kyoto». Un architetto che è stato per lei fonte di ispirazione? «Le Corbusier. Avevo vent’anni quando trovai per caso, in un negozio di libri usati ad Osaka, un volume sulle sue opere. Foto e disegni che mi hanno subito affascinato. E un’immagine della sua cappella di Ronchamp, Notre-Dame du Haut. Lì ho capito per la prima volta che l’architettura è questo: creare spazi dove le persone si possono incontrare, riunire, dialogare». In una chiesa. Ma anche in un teatro, in un museo. Ovunque si possa portare la luce.

«Ma in architettura sono necessarie sia semplicità che ricchezza. Senza usare decorazioni eccessive, quando riusciamo a integrare la natura, quindi il vento e la luce, negli edifici, è possibile progettare degli spazi intriganti, che sottolineano ed esprimono il passa- re del tempo. Poiché l’architettura rimane nel cuore delle persone, io cerco sempre di creare spazi che abbiano in sé complessità e semplicità». Anche in quelli più remoti e sofisticati, come l’isola-museo a Naoshima, in Giappone. Un vero museo a cielo aperto, con la sua direzione artistica e la sua ispirazione.

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