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Inventario. Le cose di casa

Avete mai ascoltato le storie che raccontano le cose di casa? Le tazze, le posate, il copriletto? Ma anche il quadro e la sedia ereditata, o comprata a un mercatino. Forse ad ascoltare davvero, anche la casa più silenziosa è un frastuono di voci. L’ho pensato scrivendo questo articolo per Door di Repubblica. E sì, la foto che vedete è la mia: sono le mie “cose di casa”, incrinate, segnate dagli anni, amate.

Una colta autobiografia attraverso un elenco di oggetti: “Inventario-Le cose e la casa” (Marsilio) è di Marino Folin, architetto, ex rettore dello Iuav a Venezia. Che, barba bianca e camicia bianca, il sorriso di chi ama le cose belle, ci apre la sua casa a Rialto.

L’oggetto più strano, o dalla storia secondo lei più bella, del suo Inventario. Quello che porterebbe via con sé, se potesse sceglierne uno solo…

-Nel mio libro parlo di cose, non di oggetti, seguendo, nella distinzione, quanto scrive in merito il filosofo Remo Bodei nel suo magnifico “La vita delle cose”, che consiglio a tutti di leggere. L’oggetto si contrappone all’uomo come altro da lui, mentre la cosa, con il suo carico di significati simbolici, di stratificazioni, di memorie affettive, ne è parte vitale. Per questo non posso scegliere, e rispondere alla sua domanda. Guardo le cose che mi circondano, mi interrogo se vi sia tra loro una mia preferita, le vedo in trepida attesa della mia risposta, che, lo so, inevitabilmente creerebbe tra loro una gerarchia e una rivalità che non c’è. E la mia risposta è che sono tutte strane, che hanno tutte delle storie belle (alcune più lunghe e complesse e altre più brevi e semplici, questo sì), e che sono affezionato a tutte. Il che non vuol dire che ciascuna di esse debba durare per sempre, in casa. Proprio perché fanno parte della vita, nuove cose arrivano continuamente ed altre se ne vanno, senza creare conflitti, ma ridisegnando nuove linee di relazioni tra loro. E infatti nel libro ci sono cose che a casa non ci sono più.

L’oggetto che tiene in mano ogni giorno. Cominciamo dal mattino: tè o caffè?

-Un caffè doppio, ma in una tazza da tè: quella bianca del servizio Atlantis disegnato da Josef Hoffman negli anni Trenta e prodotto dall’Augarten di Vienna (la toglie dalla vetrinetta e me la mostra, ndr). E ho anche un Mokkaservice, sempre disegnato da Hoffman, per due. Ma sono parecchie le cose che prendo in mano ogni giorno: le maniglie “Garda”, le posate “Nuovo Milano” Alessi, di Sottsass, i coltelli “Takeda”, le statuine “Love is a verb” di Seletti, che sposto tutte le mattine quando faccio la doccia (e infatti entra in bagno e me le mostra, ndr), le pentole “Bassine, Casseroles, Poèles”, il tavolo “Ur,” la “Aluminium Group Chair”… 

Nel libro racconta per ogni oggetto una storia, divisa in tre parti: cos’è; come è arrivato nelle sue mani; e dove si trova adesso. Questo mi ha fatto pensare alle case museo nel mondo. E alla mostra nell’atelier di Giorgio de Chirico a Roma: dove Luca Lo Pinto, ora direttore del Macro, aveva fatto “dialogare” gli oggetti del pittore con artisti internazionali.  

-Sono anch’io appassionato di case museo. L’ultima che ho visto è quella di Rembrandt, ad Amsterdam; che però è una ricostruzione della casa originaria, filologicamente quasi perfetta, ma, come tutte le ricostruzioni, priva di vita. Mi è rimasta invece impressa la casa di sir John Soane a Londra, casa per eccellenza delle memorie e delle meraviglie.

Lei abita a Venezia, con Palazzo Fortuny, magico soprattutto ai tempi delle mostre curate da Axel Vervoordt. E c’è un pezzo di Fortuny anche a casa sua. Me lo racconta?

-Innanzitutto i cuscini. E, sul letto, ho sempre avuto un copriletto stampato Fortuny. Un tempo blu Medici; decisi di cambiarlo quando la finitura del tunnel che penetra nella stanza piccola e lambisce l’alcova passò da uno stucco veneziano verde a una lacca blu. Una piovosa giornata di novembre, col vento di bora che spazzava la fondamenta della Giudecca, entrai nella fabbrica Fortuny, dove continuano ad essere prodotti i tessuti stampati originali, per acquistare il mio nuovo copriletto. Mariano Fortuny ha iniziato a sperimentare nel 1905. Il disegno base del mio nuovo copriletto, moresco, è quello del primo stampo in legno del 1905.

C’è un libro straordinario, che immagino lei abbia letto: “Un’eredità di avorio e d’ambra”, di Edmund de Waal. I protagonisti sono i netsuke, una collezione di piccoli oggetti giapponesi attraverso cui lui ricostruisce la storia della sua famiglia, da una guerra all’altra. Anche lei ha un netsuke, un topolino portapipa…

– È un libro bellissimo, l’ho letto. Però vorrei ricordare un altro scrittore, Orhan Pamuk, e il suo incredibile Museo dell’Innocenza, che è sia un museo, a Istanbul, che un romanzo. Nel catalogo-manifesto c’è una frase che mi rappresenta: “Il futuro dei musei è nelle case”. Perché le case di tutti sono – o possono essere – dei musei. Narrano la nostra storia. E il futuro è fatto di storie piccole: le nostre.

“È così ogni sera, quando chiudo dietro di me l’uscio della mia camera per andare a dormire; compio questo gesto semplice e consueto con avida ghiottoneria, assaporandolo: conosco il cigolìo della maniglia… Poi, adagio, mi volgo e ricerco nella penombra le cose che da anni amo vedere attorno a me; ed esse, poiché finalmente siamo sole, mi riconoscono e sorridono”.  La frase è di Alba de Céspedes, una scrittrice ormai quasi dimenticata, da un suo libro di racconti del 1940. Mi piace, forse perché anch’io penso che le cose di casa che amo mi sorridano. È una sensazione in cui lei si ritrova?

-Perfettamente. E mi ricorda quanto diceva Carl Gustav Jung a proposito degli oggetti (le cose) della sua casa-torre di Bollingen: “Intrattengo con essi una relazione come fossero esseri viventi. Questo contribuisce molto a rilassarmi in quella casa. Mi devo informare di quel che vogliono le cose, esse mi dicono quel che desiderano e io devo servirle […] esse mi rivolgono una call, cui devo rispondere.”

Lei ha un angolo dedicato ai Lari: che, nell’antichità romana, erano gli spiriti protettori della casa. Che oggetti racchiude?

-Nel mio Larario, una nicchia sopra una cassettiera nera, non ci sono statuette raffiguranti i defunti, ma piccole cose che hanno lasciato e attraverso le quali vivono e sono presenti. ll “Calco della Mano di Marcella” è una di loro. È il calco in gesso della mano di mia madre, fatto dallo zio scultore. E che lei donò a mio padre, prima di sposarsi. Sul retro si legge, incisa con bella calligrafia sul gesso ancora fresco: «13-6-1939 – la mia mano è tua Toni- Marcella.» Nella mia infanzia era un soprammobile, sul grande cassettone a specchiera nella camera da letto dei miei. Poi faceva da fermo alla porta del bagno. Lì l’ho raccolto e da allora è con me.

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