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Storia di una borsa (che parla).

Non avrebbe dovuto comprarla, quella borsa. Non perché non fosse bella, intendiamoci: era morbida e buffa come la ricordava, un bauletto di Roberta di Camerino anni Settanta, con un trompe l’oeil di una cinghia finta che la attraversava tutta. Come quelle che comprava sua madre nel negozio – ora scomparso – in piazza della Borsa. No, non avrebbe dovuto comprarla perché, alla sua età (eh sì, cinquanta passati da un pezzo), uscire con una borsa vintage non è più un gioco, ma allude immediatamente all’età, quella vera, quella sulla carta d’identità. Non quella percepita, che è sempre intorno ai vent’anni, con buona pace degli specchi che incontri. Però, l’aveva comprata. Per nostalgia e perché quel giorno era in anticipo a un appuntamento, e aveva fatto un giro in una zona della città dove non andava mai, all’Arco di Riccardo. Lì, in un negozio di vintage (ma non potremmo chiamarli semplicemente abiti usati?) la guardava dalla vetrina. E Anna non aveva mai saputo resistere alle vetrine.
Ora era lì, sulla sua scrivania; il colore era bello davvero, verde e rosso, ancora perfetta. Niente da invidiare alle altre borsette che ha amato nella vita e che non si è mai potuta comprare, le Lady Dior e le Jackie di Gucci o la 2.55 di Chanel. Che sciocca, quando ancora pensava che una borsa nuova fosse un incantesimo, e potesse cambiarle la vita. Questa di Roberta di Camerino costa almeno uno zero in meno, e le mette allegria. La pulisce con un panno – sarebbe meglio dire la accarezza, come tutte le cose nuove – e si accorge che c’è una tasca interna; prima, non l’aveva vista. Una piccola tasca chiusa con una zip che sembra inceppata. C’è qualcosa dentro… Eccolo: un piccolo notes, di quelli che si usavano una volta, quando ancora non avevamo tutta la vita chiusa in un telefonino. Il notes, con una sottile matita d’argento infilata dentro, è intonso, ha ancora le pagine bianche, ma in mezzo c’è una busta. Piccola, piegata. E affrancata, con il francobollo quasi ingiallito. Una busta mai spedita. Ovvio, bisogna aprirla. Chi può resistere alle lettere, ora che non ne riceviamo più, che nella casella della posta ci sono solo cose noiose, cartelle esattoriali, multe, l’amministratore di condominio… Dentro, un biglietto. “Se stai leggendo questa lettera è perché ho finalmente trovato il coraggio di spedirtela. Sapessi quante te ne ho scritte, e stracciate. Ma stavolta ho deciso: non voglio più andare avanti così, basta. Il divorzio è legale da un anno in Italia, tu non la ami, non l’hai mai amata. Lasciala. Abbi coraggio, il coraggio che ho trovato io oggi per dirti basta. Tua, per l’ultima volta, Anna”.
Anna? Come me? Dev’essere uno scherzo. Una borsa che mi parla, e porta pure il mio nome? Senti, Anna sconosciuta, beata te, pensa. Beata te perché io di lettere così non ne ricevo e non ne scrivo più a nessuno. Perché, dopo il mio patetico divorzio, c’è stata solo un’infilata di uomini pallidi e noiosi. Corteggiatori sconclusionati e riluttanti, neppure capaci di regalare un mazzo di fiori. Tutti chiusi dentro quel telefonino a scrivere sciocchezze e mandare brutte foto. Ah sì, e poi c’è Tinder, o Meetic, tutte le possibilità digitali di incontrare chi non riesce a incontrare al bar… Ma in realtà è una pessima idea, non funziona per le over 50 e soprattutto non funziona in una città dove si conoscono tutti. Anna si è iscritta lo stesso, con un nome falso, e come foto di profilo solo gli occhi (che sono ancora belli, grazie signor rimmel), ma gli uomini disponibili sono veramente disperanti. E Facebook? Ogni tanto, nelle sere in cui su Netflix non trova nulla, dà un’occhiata alle “persone che potresti conoscere” o alle richieste di amicizia di sconosciuti. E clicca sì a caso, tipo lotteria. Così si fa, le dicono le amiche più smagate, e così ha fatto. Risultato? Le arrivano, ogni tanto, proposte pseudo-amorose. Il signore (possibile che abbia la sua età? Sembra più vecchio) che vive in Puglia, suona il violoncello e le manda dei video-serenata; quello che le ha fatto il tema astrale (a caso, perché lei si è ben guardata di mettere la vera data di nascita sulla sua bacheca); quello che le mandava una poesia al giorno finché ha dovuto gentilmente “disattivarlo”. Una poesia al giorno? E senza vergogna, Neruda, Lorca, Prévert, cose da liceali… Ne avevano riso, con le amiche, per una serata intera.
Già. Le amiche. Le ama e le odia insieme. L’aperitivo, il cinema, e poi con un gin tonic a commentare i messaggi di uomini improbabili, come se tutte loro fossero adolescenti di ritorno. Come se? Ma lo sono, in realtà, anche quelle con i figli sparpagliati per il mondo con l’Erasmus. La fanno ridere, certo, ancora. Soprattutto quando è la serata “consigli sentimentali”. Ma all’idea che quest’estate – ancora una volta – se non vuole passare le vacanze da sola ci sono soltanto loro, o ancora peggio l’aggregarsi a coppie annoiate e litigiose, la mette di cattivo umore. Non voglio essere condannata alla compagnia delle donne, pensa. Lo pensa solo: non può dirlo a voce alta, sarebbe ingiusto. Lei delle sue amiche ha bisogno. Però è vero… Dov’è il testosterone, nella sua vita? Dove?
C’è solo lui, l’uomo dalla voce di mogano, l’uomo che vive lontano e viene a trovarla una volta al mese. Voce di mogano: perché è un uomo che vive e lavora coi legni, li chiama per nome, li sa accarezzare. Così come sa accarezzare anche lei; sa toccarla, prenderla, riprenderla. Ma, con quella sua voce di mogano, la parola che dice più spesso è no. Un uomo che non le ha mai promesso niente. Si vedono da anni, e non lo sa nessuno: è il suo segreto. No, lui non è sposato. Incise dentro il suo anello, un vecchio anello che porta sempre – è stata la prima cosa che ha notato, adora gli uomini che li portano anelli, così snob, così demodé – ci sono solo le sue iniziali. Un uomo che si basta. Un uomo che è sempre stato solo e che vuole rimanere solo. Peccato, perché è un compagno perfetto. Potrebbe essere un compagno perfetto. Ma è l’uomo del buio, l’uomo che arriva sempre quando è sera, portando regali, una bottiglia, un libro, un braccialetto; oppure portando in regalo se stesso. E quello che le fa rabbia è che i regali sono sempre giusti, come il sesso, del resto. Lui è perfetto. O quasi. Perché non vuole concedere niente di più. Mai un weekend, un viaggio, neppure un pranzo fuori. Anna si è abituata. Ha sperato, ha chiesto, ha discusso. Un giorno ha persino pianto – e poi si è arrabbiata, anche con se stessa, perché le lacrime dopo i 50 sono davvero imbarazzanti – ma voleva spiegargli che il suo sogno era semplice, banale quasi: un uomo che le porti il caffè a letto, al mattino. Almeno una volta, almeno una domenica… No, è stato tutto inutile. Prendere o lasciare. E Anna prende, finché arrivano momenti in cui vorrebbe ribaltare il tavolo, sparigliare le carte, rompere bicchieri. Mandare una lettera come questa e dire: se non hai coraggio, non farti vedere più.

Riguarda la busta: ecco il nome e l’indirizzo di un uomo del passato che non voleva decidere. Via Stuparich. Decide di andare a vedere, è vicino a casa, è una bella serata, una passeggiata non le farà male. Il Viale con i platani, via Rossetti salendo in alto, ecco via Stuparich, ecco la casa. La lettera mai spedita è in tasca. E se la imbucasse adesso? Chissà se c’è ancora quel nome sulla porta, chissà se è giusto, risvegliare fantasmi, ombre, illusioni… No, quel nome non c’è più. Quasi delusa (già si vedeva a incontrare una coppia di allegri ottuagenari), improvvisamente la riconosce: questa è la casa del glicine. Un tempo abitava qui vicino, in primavera sentiva il profumo dei fiori viola appena girato l’angolo, segnale della vicina primavera. Il glicine c’è ancora, quell’amore è ingoiato dal passato. Rimette la lettera nella tasca della borsa. Chiude la zip.

La mattina dopo va alla Bomboniera per un caffè, prima del mercato davanti alla Chiesa di Sant’Antonio. È sabato. Un altro weekend da sola, ma non vuole pensarci, meglio viziarsi, invece.

-Cocola, cossa la vol? Strucolo de pomi ‘pena fato?

Ma sì, forse…

-Gavè le letere d’amore?, le perfora l’orecchio una voce troppo vicino a lei.

Ancora lettere, pensa Anna? Ma è un incubo. Però alla fine la ordina anche lei, la lettera d’amore: specialità dimenticata della Bomboniera, solo il sabato e la domenica. Iperglicemica, tutto il dolce che nella sua vita non c’è: doppio strato di sfoglia passata nello zucchero, farcita con una crema al rhum. La spezza con le mani e non può fare a meno di pensare a quella ragazza degli anni Settanta, alla lettera mai spedita. Chissà se qui ci è mai venuta. Chissà se ha pianto, magari di rabbia, ordinando quel dolce e un caffè, aspettando un uomo che non arrivava mai.
Ecco, adesso non solo sarà ingrassata di un chilo in un nanosecondo, ma ha tutte le mani sporche e appiccicose di zucchero. E poi, quella lettera non spedita, che ossessione… È che le parole continuano a risuonarle dentro. Se Anna anni Settanta non ha mai spedito quella lettera (o magari l’ha spedita, forse questa è una brutta copia), che cosa sarà successo? Ha continuato ad aspettare che il suo uomo trovasse il coraggio, o ha stracciato quell’amore indeciso, e ha ricominciato? Da sola.

Già. Forse il punto è questo. Tu hai paura di stare da sola, le dice l’amica del liceo, l’unica che ha il coraggio di dirle cose anche spiacevoli, senza zucchero. Eppure sei capace, le ripete sempre: non hai bisogno di un amore che ti illuda. Però non voglio stare da sola, pensa Anna. Sono stufa! Che spreco, questi anni in cui potrei ancora essere amata e accarezzata. In cui ho ancora la forza di credere in un amore. E, nonostante la pelle che cede, i chili in più o in meno, il corpo che mi tradisce, le cicatrici, ho ancora voglia di spendere un patrimonio in biancheria.

Certo, lingerie. Come dimenticare? L’ultima volta che aveva comprato della biancheria, non era neppure per l’uomo dalla voce di mogano, ma per uno sconosciuto con cui aveva iniziato una corrispondenza via whatsapp. Un cliente, a dir la verità, con cui c’era del tenero. Si erano abituati a scriversi, ogni mattina un messaggio, poi le telefonate… Infine l’appuntamento: sarebbe arrivato per 24 ore, ufficialmente per discutere un contratto, da Milano. E l’aveva invitata a cena. Anna si era precipitata a comprare della biancheria preziosa, frivola, scandalosamente inutile. Perché era ancora nel camerino quando le era arrivato l’ultimo whatsapp: poteva per favore prenotare, per cena, un sushi vegano? Sushi vegano? A Trieste? Preludio di un’altra serata ridicola, in un sushi bar che ovviamente lui aveva guardato con sdegno (certo, gestito da cinesi, ma non aveva trovato di meglio), mentre lei sognava sardoni impanati in un’osteria qualsiasi. Ma proprio a lei doveva capitare un corteggiatore vegano? Che era poi pallido e insipido come il cibo che amava; l’aveva toccata con la mano molliccia e lei aveva rabbrividito. Com’è che non aveva capito tutto questo via whatsapp? La biancheria costata più della cena la guardava ancora speranzosa dal cassetto.

Non che non ci abbia provato, ad essere felice lo stesso, dice alla borsa, che è diventata la sua borsa preferita, non esce mai senza. La cinghia fake che attraversa il velluto, il verde, il rosso. Se la porta sempre dietro come se avesse dentro un oracolo, un fantasma, qualcosa da dirle… Avanti, su, che cosa vuoi che faccia? Anna è in mezzo a piazza Unità, una delle sue piazze preferite al mondo, anzi, la sua piazza preferita al mondo: una donna sola che parla con una borsa.
Sto impazzendo, pensa. Crisi ormonale in arrivo, ma forse sono solo le vacanze, il vuoto spinto della mia vita, il sentirmi in balia di me stessa e di questo stupido sogno sentimentale che vorrei solo accartocciare come una lattina usata. Allora, cara borsa, cosa vuoi che faccia?
Si ferma e tira fuori il cellulare. Inforca gli occhiali – che stress, non poter più leggere senza – cerca il nome di lui, e comincia a digitare, le parole le sa a memoria: “Se stai leggendo questa lettera è perché ho finalmente trovato il coraggio di spedirtela”. Un attimo, gli scrivo davvero?, pensa Anna. Mando io questo messaggio, cinquant’anni dopo, perché forse a qualcuno doveva arrivare, perché era destino? “Sapessi quante te ne ho scritte, e stracciate. Ma stavolta ho deciso: non voglio più andare avanti così, basta.”
In quel momento, lo schermo si illumina: è lui. “Sei libera domani sera”? Ecco. Sollievo. Inutile mentire, cara borsa. Sono sempre contenta, quando lui arriva. E adesso? Gli rispondo di sì, come faccio sempre perché sono una vigliacca sentimentale e perché in fondo lo amo anche a pezzetti? O è il momento di dire basta, davvero? Basta, basta… Sta per cliccare invio alla lettera mai spedita, quando arriva un altro whatsapp: “Stavolta porto anche il caffè”.
E sì, Anna sorride, le sembra che la piazza le sorrida, persino la borsa le strizza l’occhio. Ci sono borse così, borse magiche. Basta avere la fortuna di trovarne una.

(Questo è il racconto che ho scritto per il Piccolo di Trieste un’estate. Le lettere d’amore esistono davvero e si possono comprare alla Bomboniera).

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